Enzo d’Orsi e la ‘prima’ della Supercoppa italiana
Milano, 1988: a tavola con il presidente della ‘Samp’ nasce una competizione storica. Intervista al fondatore del ‘Dardanello’, già firma del ‘Corriere dello Sport-Stadio’
Metti una sera a cena con il presidentissimo della Sampdoria, Paolo Mantovani. Si beve, si gustano prelibatezze, ma soprattutto si parla di calcio e delle sorti delle piccole ma ambiziose società che popolavano la massima serie italiana negli anni Ottanta. Allora, quello tricolore era uno dei campionati più competitivi e spettacolari d’Europa, in continua ascesa. Gli anni della Sampdoria di Vialli e Mancini, del Napoli di Maradona, del Milan di Van Basten, un periodo che ebbe il suo culmine con le ‘Notti Magiche’ di Italia ’90, l’estate in cui il Belpaese fu al centro dell’attenzione dei calciofili di tutto il mondo. Inverno 1988: un cronista 35enne mette una pulce nell’orecchio del presidente doriano: una partita dei sogni, che faccia incontrare la campionessa d’Italia in carica con la vincitrice della Coppa Italia nella medesima stagione. L’idea piace: 36 anni dopo è ancora uno degli appuntamenti fissi del calendario calcistico italiano, uno dei primi ‘tituli’ in palio ogni stagione.
Quel giornalista si chiama Enzo d’Orsi ed è stato un’autentica colonna del ‘Corriere dello Sport-Stadio’ ma anche, nel 2004, fondatore del premio giornalistico ‘Piero Dardanello’ con Roberto Beccantini e Michele Pianetta.
Per d’Orsi - perugino d’origine, saluzzese d’adozione - ventun anni di ‘cucina’ redazionale, responsabile della redazione torinese del quotidiano sportivo, inviato con all’attivo ben quattro Mondiali, cinque Europei e un numero di minuti di gioco a più di sei zeri (senza contare altre collaborazioni e pubblicazioni editoriali). D’Orsi conosce come pochi il calcio e la sua storia e, a pochi giorni dalla finale di Riyad, ha accettato di raccontarci l’esperienza di quel cenacolo in cui diede un significativo contributo alla nascita di una delle manifestazioni classiche del calcio italiano.
«La cosa è stata molto semplice: negli anni Ottanta Paolo Mantovani, presidente della Sampdoria, stava costruendo questa squadra, bellissima a livello sportivo. Però notava che, nonostante la sua forza agonistica, a questa formazione mancava qualcosa: il sostegno della stampa e quindi l’attenzione generale che avrebbe meritato. C’era poca voglia di Sampdoria, insomma, perché, come si sa, in Italia il pubblico è molto legato alle tre squadre che hanno vinto di più e catalizzano l’attenzione generale. Mantovani aveva fondato un piccolo club, un’associazione di amici, chiamata ‘Il cerchio blu’. Riuniva una ventina di soci, quasi tutti giornalisti, in attività e non, autorità civili e militari, ma anche esponenti di rilievo della società civile. Persone di tutti tipi, insomma, principalmente amici. Il distintivo del sodalizio, che conservo ancora, era una medaglietta bianca, con una pietra scelta in mezzo, e con un circoletto blu. Ogni tanto si riuniva per delle cene a Milano. Io, ad essere onesto, partecipavo poco, perché abitavo a Saluzzo e per lavoro frequentavo maggiormente Torino. Però in quell’occasione ero presente e la conversazione a tavola era incentrata sulle possibili strategie per imporre nuovi club all’attenzione dei tifosi, con particolare attenzione a quelli minori. Va precisato che Mantovani in quel momento aveva una ‘cotta’ per il Giarre Calcio, che era una formazione siciliana che all’epoca militava in Serie C. Aveva voluto sostenerla, organizzando anche un’amichevole con la Sampdoria. Tornando alla cena, quando venne il mio turno, proposi di organizzare anche in Italia una competizione che già si faceva in molte delle maggiori leghe d’Europa. Prima che cominciasse il campionato, si poteva programmare una partita che mettesse di fronte la vincitrice della Serie A con la vincitrice della Coppa Italia. Una specie di ‘summa’ della stagione appena trascorsa, un evento di grande spettacolo e di rilievo agonistico e sportivo. L’idea gli piacque e disse che l’avrebbe proposta al Consiglio federale. Sorprendentemente (visto che in Italia spesso si fanno 10 assemblee di condominio per poter spostare uno stuzzicadenti) fu accolta in tempi rapidissimi e istituita nei mesi successivi. Eravamo in inverno, quindi la prima edizione si dovette giocare a primavera dell’anno dopo, il 14 giugno 1989. La Sampdoria di Boskov, vincitrice della Coppa Italia, affrontò il Milan di Sacchi, campione d’Italia in carica. Per la cronaca, vinse il Milan 3-1».
E lei era in prima fila per applaudire la sua creatura…
«Non la considero affatto una mia invenzione: l’ho sempre detto e non per falsa modestia. Si inventa una cosa che non c’è. Se una cosa esiste e la si ripropone, la si adatta o la si migliora, non si può considerare una creazione originale. A mio modesto parere non c’è molto di cui gloriarsi, anche visto come è andata negli anni successivi. Questo tipo di partite sono istituzionali, si fanno nel periodo prima dell’inizio del campionato perché possano consolidarsi nel calendario calcistico del Paese, creare interesse. Oggi la si fa a metà campionato, peraltro all’estero. Non c’è nulla di male ad andare a giocare altrove qualche partita, far vedere il prodotto per creare interesse ed esportarlo. Tuttavia, ritengo che non andrebbe coinvolto questo tipo di competizioni, che sono importanti principalmente per i tifosi italiani».
In effetti l’edizione 2023 si è tenuta pochi giorni fa a Riyad ed è stata segnata dalle polemiche per via dell’episodio dei fischi durante il minuto di silenzio in memoria di Gigi Riva. A suo modo è un episodio significativo, circa quanto il calcio sia cambiato in questi anni...
«Non si può pretendere che a Riyad conoscano bene Luigi Riva, così come non si può pretendere che la maggior parte dei torinesi conosca a menadito la vita e l’opera di Salman Rushdie. Il problema è la tendenza di oggi a ‘mercificare’ qualsiasi cosa, anche le poche cose che davvero funzionano. Un’altra nostra contraddizione è il pasticcio che si combina con il calendario del campionato: in tutto il mondo si gioca su due giorni, sabato e domenica. Eccezionalmente, si può prevedere qualche partita il venerdì, ma le gare sono spalmate equamente tra i due giorni oppure in rapporto di 4 a 6 a seconda delle esigenze delle Coppe europee. Tra anticipi e posticipi da noi non si capisce più nulla. Credo che questo non sia ininfluente nel fatto che, parlando di diritti televisivi, all’estero la Premier League vale cinque miliardi di euro, mentre la ‘nostra’ Serie A non arriva al miliardo».
In base alla sua esperienza, cosa servirebbe al calcio di oggi?
«Sono necessarie riforme profonde: intanto una Serie A con meno squadre perché l’impianto attuale costa troppo e non c’è modo per molte società di sostenersi. Poi, servono certezze di calendario e una riforma arbitrale, perché siamo arrivati ormai al limite del ridicolo. C’è un protocollo Var? lo si applichi uniformemente e non si metta in discussione tutto ogni volta. In Inghilterra con il Var si fanno pasticci giganteschi, come da noi, ma il protocollo è uno ed è preciso. Se c’è l’errore, amen, lo si accetti. L’importante è che le regole siano chiare per tutti».
Dal punto di vista atletico si possono fare delle considerazioni?
«Ritengo che il calcio di oggi sia anche afflitto da un’ipertrofia di date: 80-90 partite all’anno sono una follia, dal punto di vista atletico non c’è modo di reggere nonostante il progresso degli atleti in questi anni. Il problema di ogni sportivo è il recupero, non la gara. Dopo una competizione serve riposo, per consentire al corpo di riprendersi e ricominciare ad allenarsi con la giusta gradualità per tornare a giocare. Con questi ritmi di gioco gli infortuni aumentano. Al Real Madrid sono saltati i crociati a tre calciatori, tutte pedine importanti, e altri sono fermi per problemi fisici».
Un tempo il giornalismo sportivo poteva, oltre a raccontare il calcio, incidere sul dibattito pubblico, dettare l’agenda. Nel mondo del pallone di oggi quale ruolo può ancora avere la professione?
«C’è stato un grande scadimento e questo lo posso dire perché ho 71 anni, ho attraversato tante stagioni e cambiamenti. Nel giornalismo di oggi se Allegri dice una sciocchezza, tutti la riprendono, la rilanciano e poi si alimenta e si amplifica sostanzialmente un circuito di veleni. Non mi riferisco solo al sistema mediatico, sono tante piccole cose, tanti brutti comportamenti che vedo nella categoria. Il fatto è che oggi la Serie A è uno spettacolo che si guarda malvolentieri, siamo eterni prigionieri del tatticismo, di ritmi costantemente bassi e questo non è certamente un bene».
Ormai da diversi anni si dibatte sul tema della Superlega. Secondo lei sarebbe un elemento di rilancio?
«Assolutamente no. Garantendo una posizione precostituita per status, ad alcune squadre viene meno l’elemento del merito: si svuota il senso e l’essenza dello sport. In teoria, per quanto sia improbabile, l’ultima squadra della classifica deve avere la possibilità di battere, vis à vis, la migliore d’Europa. Se questo sogno non esiste più, allora è finito il mito del pallone».
Un’analisi a 360 gradi sul presente ed il futuro del calcio, ma anche un racconto originale su un’idea che è entrata nella storia del pallone italico. Esattamente come il premio ‘Piero Dardanello’, fucina di talenti che, anche grazie all’intuito di Enzo d’Orsi, ha saputo far breccia nel panorama del giornalismo sportivo italiano.