Malcom Pagani e lo storytelling, dal giornalismo al cinema
Nuova avventura professionale per il giornalista premiato al ‘Dardanello’ 2011. Assume la direzione creativa della nuova casa di produzione ‘Tenderstories’
Era un giornalista de ‘l’Espresso’, Malcom Pagani, quando ricevette a Mondovì il premio ‘Dardanello’, categoria nazionale, come miglior penna emergente del 2011. Il suo percorso professionale, da allora, lo ha portato ad assumere la vicedirezione di ‘Vanity Fair’ (dopo un passaggio nella redazione de ‘Il Fatto Quotidiano’) e, oggi, arriva ad una svolta. Il giornalista romano è il nuovo direttore creativo della ‘Tenderstories’, casa di produzione cinematografica fondata da Moreno Zani, presidente di ‘Tendercapital’. Pagani entra a far parte di una squadra di creativi che si occuperà sia di ideare nuovi prodotti, sia di partecipare a produzioni cinematografiche. L’associazione ‘Dardanello’, nel complimentarsi con lui per la nuova avventura, ha colto l’occasione per approfondire il tema della differenza tra i due tipi di racconto, quello giornalistico e quello cinematografico, con uno sguardo sull’attualità del mercato, dove la contaminazione tra i due mondi è sempre più forte.
Come è maturata questa nuova avventura professionale?
«Anzitutto fatemi dire che è un grande piacere ricordare il premio ‘Dardanello’ e, con esso, le tante emozioni di quella serata di fine primavera a Mondovì. Ho nella mente fotogrammi, amicizie, emozioni: è un premio che mi è rimasto nel cuore. Venendo a noi, conoscevo bene il presidente di 'Tendercapital', Moreno Zani, che aveva lavorato a lungo con noi a Condè Nast, sostenendo alcune delle iniziative più importanti. Zani quest’anno ha coprodotto il film di Claudio Noce che ha permesso a Pierfrancesco Favino di vincere la ‘Coppa Volpi’ alla Mostra del cinema di Venezia come miglior attore. Dopo questa esperienza felice ha fondato una casa di produzione cinematografica, 'Tenderstories'. Come dice il nome, la nuova realtà si propone prima di tutto di realizzare storie. Alla squadra si è aggiunto, come amministratore delegato, Fedele Usai che, per anni, ha avuto il medesimo ruolo a Condé Nast. È l’uomo che mi ha assunto alla vicedirezione di ‘Vanity Fair’ e con lui condivido un’amicizia profonda e la visione del mondo. È stato anche in Piemonte per tanti anni, come capo della comunicazione mondiale di Fiat, ed è vicepresidente del Cagliari Calcio. Il nostro obiettivo è raccontare storie: del resto noi tutti, per la nostra estrazione e provenienza, legata a stretto filo all’editoria, siamo legati a questo tipo di attività».
Quali sono le storie che vorreste raccontare?
«La storia d’Italia è piena di spunti utili. Stiamo mettendo in piedi una serie di progetti di cui stiamo scrivendo i soggetti. Sono legati alla storia dell’Italia ma sono anche racconti individuali. In fondo non è un lavoro così diverso da quello che ho fatto negli ultimi anni: si tratta sempre di leggere e appassionarsi, documentarsi. Il mio ruolo è quello del direttore creativo ed editoriale. Sarà un’avventura, vi sono sedi a Milano, Roma e Londra, abbiamo preso una bravissima scrittrice come responsabile dei progetti di scrittura. La società sarà un incubatore di progetti nuovi e potrà prendere parte alla produzione di altre pellicole, che selezioneremo».
Nell’industria dell’intrattenimento si vedono sempre più prodotti basati sulla cronaca, che lettura dà lei di questo fenomeno?
«Sarebbe troppo facile rispondere che la realtà supera qualsiasi fantasia. Il punto è che il cinema ha sempre avuto una matrice giornalistica. Non è forse la storia di Jake LaMotta raccontata in ‘Toro scatenato’ da Martin Scorsese un’appendice al giornalismo? O ‘Tutti gli uomini del presidente’ sul Watergate? ‘Mani sulla città’ di Rosi non è forse un affresco del malaffare nella Napoli degli anni ’50? C’è una parte d’invenzione, è naturale. Eppure, in tutti i migliori prodotti del nostro cinema, il legame con il giornalismo e con la realtà c’è ed è sempre forte. Negli ultimi anni, poi, è diventata esponenziale l’importanza dei documentari, fatto che interessa anche moltissimo noi della ‘Tenderstories’. Stiamo parlando sempre di parole, di storie».
Sono sempre storie, cambiano le regole del racconto. Quando si approccia una storia difficile o di cronaca nera, che tocca nel vivo la vita delle persone, come le si tutela? Penso ad esempio al recente caso della serie Netflix, ‘Sanpa’. Nel giornalismo ci sono rigidi codici deontologici. C’è un codice etico anche nel cinema?
«’Sanpa’, detto per inciso, è un ottimo prodotto. Il discorso che lei propone è molto sottile e molto lungo. Prima di tutto c’è un tema di liceità dello sguardo: sia nel giornalismo che nel cinema, quando l’occhio del narratore non è morboso e prova a indagare con rigore, non c’è limite al racconto. I fondamenti sono l’onestà del punto di vista e la passione di chi racconta. Penso a grandissimi film italiani, come ‘Il muro di gomma’ di Risi, che racconta il caso Ustica. Romanza un po’ le vite delle persone, dei familiari delle vittime, ma ha profondo rispetto anche nella ricostruzione dell’inchiesta, dei depistaggi e racconta bene quello che hanno rappresentato queste vittime innocenti finite in fondo al mare».
Dunque, secondo lei, non c’è un limite al racconto?
«Secondo me un limite non c’è. Non va bene quando il racconto indulge nella morbosità per la morbosità, quando cerca lo scandalo fine a sé stesso, o la calunnia e la diffamazione. Per esempio, si è fatto molto parlare di ‘Sanpa’ e di Muccioli. Premetto che io sono un ex-ragazzo del ’75, leggo i giornali con grande passione da quando avevo 10 anni. Ricordo che all’epoca non c’erano mezze misure: la sinistra dipingeva Vincenzo Muccioli come un demonio e la destra lo difendeva, nel nome della lotta alla droga e di una legislazione iperproibizionista. Questo documentario, di cui i muccioliani di stretta osservanza si sono lamentati denunciando una parzialità dello sguardo, ritengo sia molto onesto. A me, quarantacinquenne di oggi, restituisce un Muccioli molto più multiforme e sfaccettato rispetto a quanto emerso all’epoca nelle cronache. Da questo punto di vista, quindi, questa è un’operazione in cui si ha la possibilità di farsi una propria idea. Penso anche ad altre serie meravigliose, anche americane, come ‘Making a murderer’ o la serie di qualche anno fa sul caso ‘Unabomber’. Secondo me non c’è un limite alle possibilità del racconto. C’è il tema del rispetto del volere e della sensibilità dei familiari e delle persone coinvolte, ma questo può anche essere un limite. Rispetto sì, ma fermarsi no. La deontologia è nello sguardo di chi racconta. Quando si trova a raccontare la violenza non deve farne pornografia. Penso che Daniele Vicari abbia raccontato benissimo l’odissea della scuola Diaz e lo abbia fatto con il rigore di un film che non ha niente da invidiare a certi grandi drammi di denuncia del cinema americano».